Era stata il mio sogno da neopatentato. Ma all’epoca costava troppo per le finanze familiari e così dovetti accontentarmi di una Mini Cooper. L’Alfa Romeo GT junior 1300 rimase a lungo per me un “oggetto del desiderio”, accresciuto sempre più nel tempo dalle imprese sportive della GTA: la A stava per “alleggerita”, perché su progetto dell’ingegner Carlo Chiti, direttore della mitica Autodelta, la carrozzeria fu costruita in alluminio per renderla più competitiva in gara. Tra il 1965 e il 1975, ne furono prodotti all’incirca 500 esemplari in versione stradale, il minimo previsto dal regolamento della categoria Turismo Gr.2. Ma bisognava stare attenti in pista, e anche fuori, a non prendersi a sportellate: per qualsiasi carrozziere, ribattere l’alluminio era un lavoro faticoso e oneroso.

Sebbene la Sprint GT avesse due porte e il coupé fosse di fatto una “Gran Turismo”, disegnata da Giorgio Giugiaro per Bertone, quel genio di Chiti si accorse che per poterla omologare bastava modificare i sedili posteriori. E così quelli imbottiti del modello di serie vennero sostituiti con una panchetta di plastica per recuperare spazio. Esteticamente la vettura non era molto diversa dalla “progenitrice”, ma alla fine della cura dimagrante pesava soltanto 745 chili, ben 200 in meno rispetto a quella di serie. Per ottenere questo risultato straordinario, insieme a tanti altri piccoli accorgimenti, al posto delle maniglie furono montati perfino due “archetti” metallici con serratura a pulsante.
Il motore aveva pochi cavalli in più della versione stradale. Ma venne riprogettato per sopportare le elaborazioni da corsa e gli aumenti di potenza. Nel nuovo 1.6 bialbero furono installati bielle e pistoni speciali, con una testata a doppia accensione: due candele per ogni cilindro. E infine, vennero montati due carburatori Weber a doppio corpo, con una pompa della benzina elettrica.

Quel “gioiello” della meccanica, dotato di un aggressivo scarico laterale per le competizioni, raggiungeva una potenza di 160-170 cavalli, a 6.500 giri al minuto, superando di gran lunga la velocità di 185 chilometri all’ora dichiarata per la versione originale. Dopo le prime gare, però, i piloti notarono che la GTA tendeva in curva ad “alzare” la ruota posteriore interna: un particolare che mandava in visibilio gli spettatori delle gare, ma faceva perdere stabilità e trazione alla macchina.

Per ovviare a questo inconveniente che penalizzava la vettura in uscita dalle curve, l’ingegner Chiti tirò fuori dal suo cappello a cilindro il cosiddetto “Slittone”: un dispositivo meccanico applicato alla sospensione posteriore, per abbassare il centro di rollio con la funzione di un contrappeso. Da allora in poi, come documentano le foto dell’epoca, la leggendaria GTA si “coricava” in curva e solleva la ruota anteriore interna, guadagnando una trazione ottimale in uscita con le due posteriori incollate a terra.

Nella sua lunga carriera sportiva, prodiga di successi sui circuiti nazionali, nel 1966 la GTA dominò in diverse gare: la 4 Ore di Monza, la 500 chilometri di Snetterton (Inghilterra), la 6 Ore del Nurbürgring (Germania), il Gran Premio di Zandvoort (Paesi Bassi). Vinse il Challenge Europeo Turismo con Andrea De Adamich e nel 1969 con Spartaco Dini. Fu la prima auto italiana a trionfare nella Mitropa Rally Cup. E così diventò un mito dell’automobilismo tricolore, con il marchio del Biscione come alfiere prima che diventasse il distintivo dell’impero televisivo berlusconiano.
A distanza di molti anni, appassionato di auto storiche come nel frattempo ero diventato, scovai una vecchia GTA in un casale di campagna vicino Foggia. Era incidentata e dovetti farla restaurare proprio dall’Autodelta. Fu un intervento a regola d’arte. E con quella macchina, appena messa a nuovo, partecipai con un amico rallysta a un’edizione rievocativa della Targa Florio, sui tornanti delle Madonie, in Sicilia.

Era formalmente una gara di regolarità, con alcune tappe di velocità a cronometro in tratti chiusi al traffico. Appena arrivato in aereo da Milano, andai subito a provarla senza preoccuparmi troppo della condizione delle gomme. E sull’asfalto scivoloso di quel percorso, esaltato dalle prestazioni del mio bolide rosso fiammante, a una curva particolarmente pericolosa andai in testa coda, riuscii in qualche modo a controllare la macchina e mi ritrovai in direzione opposta a quella da cui provenivo. Fu un cattivo presagio.

In gara, grazie soprattutto all’esperienza del mio amico pilota con il quale mi alternavo al volante, ottenemmo risultati soddisfacenti e verso la fine del percorso eravamo in buona posizione. Per l’ultima tappa a cronometro, passai al volante e proprio sulla linea del traguardo avemmo una brutta sorpresa: l’ago della temperatura dell’olio schizzò di colpo verso l’alto e uno sbuffo di fumo uscì mestamente dal cofano del motore. Il solerte meccanico che aveva restaurato il mio piccolo bolide s’era preoccupato di sostituire anche il tubo di gomma, utilizzandone però uno originale d’epoca che s’era purtroppo “ingottato”. Tradito da quell’esperienza, affidai la macchina a un carro attrezzi e la cedetti a un appassionato giapponese che se n’era innamorato.