Sto rileggendo in questi giorni A pranzo con Orson Welles – conversazioni tra Henry Jaglom e Orson Welles (a cura di Peter Biskind, Adelphi 2021) e vi ritrovo una miniera di informazioni oltre che di giudizi taglienti e crudeli, sempre parecchi metri sopra il cielo. Un vero spasso e anche occasione di riflettere sulle gioie e le sciagure umane

“A partire dal 1978 – leggo nella nota introduttiva – quasi tutte le settimane, Orson Welles e Harry Jaglom pranzarono insieme al Ma Maison, il ristorante preferito da Welles e uno dei più in voga di Hollywood. Questo libro raccoglie le loro conversazioni sulla base dei nastri di un registratore che Jaglom teneva nascosto nella sua borsa”. Naturalmente Welles sapeva di essere registrato; aveva solo chiesto di non avere sotto gli occhi l’indiscreto apparecchietto, cosa che gli permise di sentirsi libero e sfrenato nei giudizi. Ai pranzi assisteva sempre Kiki, la ferocissima cagnetta che non permetteva a nessuno di avvicinarsi al Genio anche emettendo opportune flatulenze.

Henry Jaglom, bravo regista di molte generazioni successive, era un devoto di Welles (come lo spesso citato, Peter Bogdanovich, autore del meraviglioso monumentale Il Cinema secondo Orson Welles, a cura di Jonathan Rosenbaum, Il Saggiatore 2016) ma l’amicizia era tale tra i due da non relegarlo in posizione adorante e subalterna. Così che la loro spumeggiante conversazione assume spesso i toni del battibecco, soprattutto quando Welles si diverte a provocare il giovane cineasta su temi “politici” ostentando una fittizia spocchia di benpensante conservatore dispettoso a fronte dell’ingenuo e ovvio progressismo del commensale.


C’è un capitolo dove lo sfoggio di pettegolezzi e crudeli verità messe a nudo è tale che da solo vale il libro. Le antipatie di Welles per alcune grandi figure del passato (senza disdegnare furiose insofferenza verso i contemporanei) vi sono dichiarate senza mezze misure. Ne fanno le spese giganti come Charlie Chaplin, Alfred Hitchcock, Laurence Olivier, Spencer Tracy, Humphrey Bogart, Woody Allen, grandi produttori come Luis B. Mayer (MGM), Jack Warner (Warner Bros.), Harry Cohn (Columbia), Darryl Zanuck (Fox) e quello che tutti idolatrano come un genio, Irving Thalberg, il mogol che fu promosso a capo di tutte le produzioni prima della Universal, poi della Metro Goldwin Mayer, e che Welles considera il responsabile dell’annientamento della figura dell’autore/artista a vantaggio dello stile anonimo degli Studios, un concetto che farà scuola ed è oggi dominante dappertutto, anche quando i produttori si dimostrano infinitamente meno dotati di Irving Thalberg. A lui si ispira Francis Scott Fitzgerald per la figura del produttore Monroe Stahr nel suo The Last Tycoon (Elia Kazan ne trarrà nel 1976 il suo ultimo film, in italiano Gli ultimi fuochi, interpretato da uno strabiliante bellissimo Robert De Niro).

Welles indica anche la vittima più illustre di questa “rivoluzione”: il venerato Eric von Stroheim, da lui ritenuto il regista più dotato e geniale di tutti i tempi. Ce ne sono anche altri che Welles apprezza: John Ford (non sempre), Jean Renoir, Frank Capra, John Huston (non sempre!), Charles Laughton (adorato), Gary Cooper (venerato), Carol Reed, Joseph Cotten, Marlene Dietrich, Buster Keaton (il migliore!), Jack Lemmon, Michael Caine e… il nostro Pier Paolo Pasolini (ne Il Cinema secondo Orson Welles rimbrotta aspramente Bogdanovich per un giudizio riduttivo sul poeta italiano che lo aveva diretto ne La Ricotta ).

A un certo punto vengono a parlare di John Wayne e, insieme a lui, di John Ford e Ward Bond, un bel gruppetto di conservatori che Jaglom, pur ammirandoli, non sopporta per le loro prese di posizione ultra reazionarie. Naturalmente quando si parla di conservatori americani contrapposti a un liberal come Orson Welles bisogna staccarsi da quello che sono diventati oggi, incarnati nei loro eccessi spacconi da una figura come quella di Donald Trump che i posteri – segnatevi questa profezia! – un giorno descriveranno come inverosimile. Sono conservatori che comunque rispettano la costituzione americana (quella che proclama nel primo articolo il diritto di tutti alla felicità!) e che verserebbero il sangue per difenderla, altro che deliri golpisti e ricchezze personali al primo posto! Ma per parlare di John Wayne, dobbiamo fare una piccola digressione e tornare al core business di questo sito che parla di macchine e, attraverso quelle, cerca di raccontare uno spicchio del mondo e delle sue storie.

È a tutti noto che John Wayne, nome d’arte di Marion Robert Morrison (Winterset, 26 maggio 1907 – Los Angeles, 11 giugno 1979), da tutti soprannominato The Duke, sia stato uno dei più celebri attori americani, oltre che produttore e regista, anche se l’unico Oscar gli fu tributato nel 1970 per Il Grinta. Non credo ci sia stato un altro attore del periodo classico che abbia declinato in tutte le sfumature possibili il mito dell’eroe senza macchia, retto, leale, fedele agli ideali, alle amicizie e agli amori. Anche altri attori egualmente carismatici come Gary Cooper, James Stewart, Clark Gable, Gregory Peck, hanno incarnato figure altrettanto nobili, ma è certo che non c’è ruolo interpretato da Wayne dove la tempra morale abbia vacillato o ci siano stati margini di ambiguità e incertezza. Questo per dire che le sue prese di posizione (clamorosa fu quella a favore della guerra del Vietnam cui dedicò il controverso film Berretti Verdi (The Green Berets, Warner Bros. 1968) ebbero sempre grande influenza e, pur non essendo universalmente condivise, mai compromisero la stima e la simpatia di cui The Duke ha sempre goduto.

I gusti “americani” si riflettevano anche nella scelta delle sue automobili: John Wayne non subiva il fascino delle opulente Rolls-Royce o delle rabbiose sportive italiane con le quali scorrazzare lungo il Sunset Boulevard o il Mulholland Drive. Ne indichiamo una serie che, lungi dall’essere completa, racconta della preferenza per le grosse berline USA o per auto familiari antenate dei moderni SUV, auto che più che la “rappresentanza” cercavano la funzionalità:




Scriveva Jean-Luc Godard nel 1966. “Mistero e fascinazione di questo cinema americano. Come posso odiare John Wayne che appoggia Goldwater e amarlo teneramente quando solleva con le braccia Natalie Wood nella penultima bobina di Sentieri selvaggi?” Infatti!

Quando Ethan Edwards trova finalmente la bella Debbie, rapita dagli indiani da piccola (le squisitezze riparatrici woke erano di là da venire) e tutti ci aspettiamo che la uccida perché diventata ormai una di loro, ecco che il Duca (e John Ford) ci prende alla sprovvista. La solleva da terra e sussurra come a una bambina: Let’s Go Home, Debbie. Che reazione possiamo avere di fronte a questa scena più di settant’anni dopo che fu girata nella Death Valley? Una sola: torna Duke, tutto è perdonato! A te e all’America che hai sempre rappresentato.
Ritorniamo al tavolo del Ma Maison mentre Orson Welles e Henry Jaglom sgusciano le loro cozze e discutono di John Wayne, John Ford e Ward Bond, altro attore prediletto del grande regista americano nonché amicissimo del Duca e ugualmente avverso alle novità.

Cito direttamente dal libro:
Henry Jaglom: Politicamente Ford era un reazionario, no? Come i suoi amici John Wayne e Ward Bond.
Orson Welles: Sì, ma non so come, loro mi volevano bene. E io li ricambiavo. Ho ancora una bottiglia di birra che mi misero insieme sulla barca di Ford, con diverse etichette di birre messicane e americane autografate da tutti quelli del gruppo. E allora ero un famigerato rosso di Hollywood.
HJ: Ma come mai erano così reazionari?
OW: Irlandesi, irlandesi, irlandesi. “Dàgli al giudeo!” gli avevano insegnato. Che gran persona John Wayne. L’attore più educato che abbia conosciuto a Hollywood.
HJ: Hai mai parlato di politica con lui?
OW: E perché? Non sono mica come te, io. Ti pare che mi metto a raddrizzare le idee a John Wayne? Non ho mai avuto nessun problema con gli estremisti di destra. Li ho sempre trovati simpaticissimi sotto ogni aspetto, a parte la politica. Di solito sono meglio di quelli di sinistra.
HJ: Facile per te dirlo. Eri in Europa negli anni Cinquanta, quando c’era la lista nera e tutta quella merda.
OW: Sì, ebbi la fortuna di restare fuori dagli Stati Uniti durante il maccartismo. Ero il più schedato di tutti. Ma nei miei editoriali sul New York Post dall’inizio alla fine degli anni Quaranta criticai la Russia stalinista proprio quando tutti credevano che Dio sorridesse a Stalin. Volevo tanto spiegare alla Commissione per le attività antiamericane la differenza fra un comunista e un liberal.
HJ: Certo che sei molto tollerante verso queste idee pericolosissime…
OW: Tollerante?! Mettiamo che tu vada in Amazzonia a vivere in un villaggio di cacciatori di teste. Se sei un antropologo diventerai un loro grande amico, ma non ti metterai a criticare le loro usanze.

Fa bene ogni tanto riprendere in mano i vecchi libri, quante cose sfuggono alla prima lettura! Adesso so come rispondere a chi mi chiede perché a John Wayne siamo disposti a perdonare tutto, perfino il tremendo senatore repubblicano Barry Goldwater (che fortunatamente perse contro Lyndon Johnson nel 1964, quando l’America aveva ancora intatto il sistema immunitario). Comunque John Wayne era un tipo sportivo: malgrado non li avesse sostenuti, si complimentò pubblicamente con Gerald Ford e Jimmy Carter quando diventarono presidenti, tanto che con quest’ultimo divennero addirittura amici.






L’epitaffio che fece scrivere sulla sua tomba recita: “Feo, fuerte y formal”: brutto, forte e gentiluomo. Il Duca adorava il Messico e non ebbe esitazioni a scegliere la sua lingua per l’autoritratto estremo. Anche questo non lo rende un conservatore assai diverso dalle caricature attuali.