Il primo amore sarà stato, come per tutti, la mamma. Il primo fidanzamento però avvenne qualche anno dopo, a quattro anni, bimbo precoce. La fidanzatina si chiamava Giulietta e non era una compagna dell’asilo o la cuginetta o la figlia di amici di famiglia conosciuta a una festicciola con le aranciate, le cocacole e i grissini col prosciutto in vetta. La mia Giulietta era un’automobile, un’Alfa Romeo per la precisione, per me la più bella del mondo: vederla e amarla per sempre fu tutt’uno. Molti rimasero folgorati dallo stesso colpo di fulmine, tanto che la stampa prese a chiamarla la fidanzata d’Italia e dovetti combattere contro centinaia di migliaia di rivali per assicurarmi il suo affetto. Intanto toccava aspettare l’età della patente, poi trovarne una in buone condizioni, poi mantenerla con la paghetta squattrinata. In più mi tormentava il dubbio che da “grande” non ce ne sarebbero più state in giro, inghiottite dalla pressa del demolitore in omaggio al furore consumistico che le avrebbe presto o tardi scartate. Fortunatamente non fu così.

La Giulietta nella sua versione berlina quattro porte ha compiuto in questi giorni settanta anni. Lo scorso 2024 li aveva compiuti la sua versione sportiva, quella Sprint presentata a Torino all’esterno del Salone dell’Auto il 19 marzo del 1954 che anticipò l’uscita della berlina che non era ancora pronta ma il cui debutto, legato a una lotteria promossa dall’IRI, non si poteva ulteriormente ritardare. Furono perciò rapidamente preparate e presentate in modo semi-ufficiale due vetture di pre-serie, una azzurra e l’altra rossa. Le ho ancora davanti agli occhi malgrado non fossi che un bimbo. È una storia che ho già raccontato e non voglio annoiarvi: mio padre voleva comprarne una e mi aveva portato con sé, anche se poté solo ordinarla e aspettare quasi un anno prima di ritirarla.

La Giulietta era una novità assoluto per la casa del Portello che fin dalle origini aveva costruito modelli lussuosi e auto da corsa, un vanto per l’industria italiana. Era l’auto delle grandi famiglie, degli attori, dei reali di mezzo mondo, come il principe giapponese Chichibu, fratello di Hiroito, l’Imperatore, che utilizzava una RL del 1927, o Leopoldo e Astrid del Belgio, e perfino del Duce, cui una generosa sottoscrizione operaia (di cui si vantava la spontaneità) aveva regalato una RLSS 6 cilindri spider carrozzata Zagato. Senza dire dei trionfi sportivi di piloti come Tazio Nuvolari, Achille Varzi, Giuseppe Campari, Gastone Brilli-Peri, Antonio Ascari, Ugo Sivocci, Antonietta Avanzo, Luigi Fagioli, Juan-Manuel Fangio,Nino Farina e molti altri.

I bombardamenti della guerra avevano devastato l’Alfa e reso impossibile di produrre auto, tanto che si dovette ripiegare sulla fabbricazione di utensileria e cucine economiche prima di ricostruire le linee di montaggio. Una volta ripristinate, grazie agli aiuti del piano Marshall, fu deciso di orientarsi verso una clientela meno facoltosa, anche se questo rischiava di compromettere il blasone sportivo. L’Alfa era proprietà dell’IRI sin dal 1933 e la sua accorta dirigenza non volle sfidare il dominio Fiat e, in misura minore, Lancia nel settore delle medie, dunque progettò un’auto di categoria leggermente superiore (1.300cc anziché 1.100 e 1.200 come le sue rivali) e dalla vocazione più brillante che familiare, come nella sua tradizione.

Progettata da un team eccezionale (Orazio Satta Puliga, Giuseppe Busso, Giuseppe Scarnati, Rudolf Hruska e altri genii), la Giulietta avrebbe dovuto essere pronta nella primavera del 1954, così prometteva la sottoscrizione promossa per raccogliere ordini e capitale fresco, ma soprattutto per dimostrare agli alti gradi che esisteva una platea di compratori per la nuova nata. Tuttavia nel corso dei collaudi non si era riusciti a eliminare una fastidiosa rombosità nell’abitacolo, inammissibile in una vettura “borghese”.

Fu perciò deciso di presentare al suo posto la versione coupé, una elegante berlinetta disegnata da Scarnati, migliorata da Mario Felice Boano e successivamente affinata da Nuccio Bertone e dal suo estroso designer Franco Scaglione. Si pensava che la vocazione sportiva avrebbe fatto tollerare il rumore, e mai idea fu più giusta perché quel raglio metallico caratteristico del bialbero e della sua doppia catena di distribuzione fu da subito una delle caratteristiche che identificava la Giulietta anche senza averla vista, perfino al buio. Inutile dire che fu un successo clamoroso, nessun’altra concorrente vantava le sue prestazioni, l’accelerazione, la frenata, la tenuta di strada. Forse solo la Porsche 356 e qualche sportiva inglese come Triumph e MG (tutte però di cilindrata superiore) potevano tenerle testa sui rettilinei, ma non nel misto-veloce dove la Giulietta metteva tutte a tacere. Risolti i problemi di rumorosità molesta, anche le versioni berlina e, più potente, Turismo Internazionale (TI), furono finalmente lanciate catapultando l’Alfa Romeo fra i costruttori europei capaci di grandi numeri.

Era scritto che la madrina di queste brillanti vetture fosse Giulietta Masina, l’interprete di Luci del varietà, de Lo sceicco bianco, di Le notti di Cabiria, de La strada, de Il bidone, di Giulietta degli spiriti, di Ginger e Fred del suo pirotecnico consorte Federico Fellini (oltre a molti altri capolavori del cinema italiano) e di cui Charlie Chaplin disse: “è l’attrice che ammiro maggiormente”. Sarà lei infatti a tenere a battesimo la Giulietta n° 100.001, sorridente fra le maestranze dell’Alfa, stavolta sollevate dall’obbligo di regalarla rompendo il maialino dei risparmi.

Resta da dire che questa splendida settantenne nel corso del tempo ha acquisto un ascendente sempre maggiore. In tutte le sue declinazioni, dalla berlina alla TI del Centro Stile Alfa, dalla Sprint, Sprint Veloce e Sprint Speciale di Bertone, alla Spider disegnata da Pininfarina, alla Sprint Zagato disegnata appunto da Zagato, queste auto di cilindrata contenuta ma dalle prestazioni esuberanti sono state il desiderio di un’infinità di giovani e meno giovani non solo in Italia ma in tutto il resto del mondo. Dalla fine degli anni Cinquanta a tutti gli anni Sessanta fu l’auto della dolce vita per antonomasia e anche quella di carabinieri, poliziotti e rapinatori in fuga.

