Se l’automobile fosse soltanto un mezzo di locomozione e di trasporto; un apparato meccanico per muoversi più comodamente e velocemente; un marchingegno per viaggiare, per spostarsi e spostare qualcosa, allora non vanterebbe una sua storia, una tradizione e una cultura. Non alimenterebbe una produzione mediatica, con articoli e supplementi dei giornali, periodici specializzati, programmi televisivi, convegni e dibattiti.
Proviamo, dunque, a pensare l’automobile come un “medium”, uno dei tanti mass media che popolano la società contemporanea, un mezzo di comunicazione di massa che serve appunto a mettere in collegamento persone lontane e diverse. La stampa, la radio, la televisione, il telefono o Internet, funzionano notoriamente a distanza, consentendo agli interlocutori di restare ognuno dove si trova. L’auto, fornendo in più il movimento o il trasporto, assicura anche il contatto fisico, diretto, interpersonale.

È per questo che si può definire, innanzitutto, uno strumento di libertà, individuale e collettiva. Un supporto pressoché indispensabile per l’esercizio quotidiano della propria libertà personale. E ormai, al ritmo frenetico della vita moderna, perfino una condizione di libertà: per circolare, per lavorare, per riposarsi, per divertirsi, insomma per sopravvivere.
Ma, proprio in quanto mass media, l’automobile è in grado di realizzare un transfert a livello psicologico, cioè una traslazione, un meccanismo che – oltre a spostare le persone e le cose materiali – trasferisce anche pensieri, emozioni, sentimenti. Diventa così, per chi la possiede e la utilizza, proiezione di sé, del proprio io, della propria indole e mentalità. E di conseguenza, a vario titolo, oggetto del desiderio; mito e tabù; status symbol; bene da investimento; strumento per la produzione del reddito oppure di seduzione; guscio protettivo; casa o ufficio viaggiante; alcova di fortuna, più o meno clandestina.

Nella civiltà della comunicazione di massa, l’immagine della quattro ruote riassume la dimensione dell’essere e dell’apparire. Da un lato, la concretezza tangibile del mezzo meccanico, con le sue funzioni essenziali e la sua utilità pratica. Dall’altro, il valore emblematico dell’immagine, dello stile e della rappresentazione estetica. Un mix perfetto, quindi, di forma e sostanza, ragione e passione, dovere e piacere.
La potenza e l’affidabilità del motore, il comfort della vettura, le caratteristiche di consumo, contano perciò quanto la carrozzeria, la linea o il colore. Quello che si stabilisce tra il guidatore e l’auto è spesso un rapporto simbiotico, nonostante la “macchina” non abbia certamente le qualità vitali di un animale domestico, di un cane o di un cavallo. Non a caso molti ne sono gelosi, non la prestano volentieri né la lasciano portare ad altri. Le riservano attenzioni e cure particolari. Le parlano, perfino, magari sottovoce o quando sono soli. E qualcuno arriva addirittura ad assegnare alla propria macchina un soprannome confidenziale.

Non si tratta, però, solo di fanatici o di maniaci. A lungo andare, la quattro ruote diventa per tutti luogo delle memorie, contenitore delle nostre gioie e dei nostri dolori, in qualche modo insomma compagna di vita. Personalmente, ricordo bene le auto che ho posseduto, ognuna legata a una stagione particolare, a una città, a un lavoro, a una vacanza, a un rapporto d’amicizia o d’altro: dalla Mini Cooper bicolore con cui ebbi il mio primo incidente nel traffico urbano alla station wagon Bmw a trazione integrale con cui amo viaggiare in autostrada e ancor più sulle strade tortuose di montagna. E poi, come dimenticare il coupé sportivo del viaggio di nozze, la vecchia 500 regalata a mia moglie, la cinque porte più confortevole per la nascita del primo figlio, la berlina famigliare, le macchine dei ragazzi, il fuoristrada giapponese delle vacanze felici sulla neve?

Ogni auto è un pezzo di vita personale. Un frammento di memoria. Un ricordo. Non ho ritegno a dire che di solito mi affeziono alle mie macchine e mi dispiace separarmene quando devo cambiarle. Ma ogni volta la storia ricomincia, si fa presto a conoscersi, a scoprire pregi e difetti, a fidarsi l’uno dell’altra. Più che un piacere, la guida è una passione che può dare gioie e a volte anche delusioni o dolori, ma per me è sempre un’occasione propizia per distendermi, per rilassarmi e magari per riflettere su ciò che devo fare o non fare quando non sono al volante.

L’ho coltivato negli anni, questo rapporto. Seguendo la Formula Uno, in tv o a volte negli autodromi. Frequentando corsi di guida sicura, sportiva e perfino acrobatica, sull’asfalto o sulla neve. Guidando su strada o in pista alcune affascinanti auto storiche. Disputando con queste “vecchie signore” diverse gare di regolarità o di velocità, comprese quattro rievocazioni della mitica “Mille Miglia”, una festa di popolo che si rianima prodigiosamente a ogni edizione. E tuttora, quando mi metto al volante, quelle esperienze mi aiutano a concentrami, cercando di migliorare la tecnica e di prevenire errori miei o altrui.

Oggi che la congestione del traffico urbano da una parte e i limiti di velocità su strade e autostrade dall’altra inducono ormai a un uso più parsimonioso dell’auto, mi riservo preferibilmente il piacere della guida nei momenti di relax, nei weekend e nei viaggi di vacanza. È un modo anche per contribuire alla lotta contro l’inquinamento atmosferico, in attesa che la quattro ruote diventi sempre più verde con il favore della ricerca e della tecnologia. Ma scopro contemporaneamente il gusto di risparmiare carburante, gomme e freni, percorrendo lunghe distanze senza fermarmi al distributore, colloquiando con il navigatore satellitare e ascoltando lo stereo di bordo. Un vecchio amore non si scorda mai, neppure quando passa il tempo e cambiano inevitabilmente le condizioni, di contesto o di spirito.