A dirlo oggi suona strano, ma il 31 dicembre del 1947 i registri del parco circolante italiano contarono più autocarri che automobili: 186.138 contro 184.060. Soltanto 2 mila in più, ma la circostanza non si era mai verificata prima e diventò rapidamente impensabile dopo. Per capirne le ragioni bisogna tornare a quei giorni.
La guerra si è conclusa da due anni, lasciando in Italia cumuli di macerie; soprattutto le ferrovie, bersagli preferiti dei bombardieri alleati, sono semidistrutte: la metà dei 14 mila chilometri di rotaie sono da sostituire, il 60% delle locomotive e il 50% dei carri merci sono inservibili. Le strade non stanno meglio, ma possono essere rimesse a posto più rapidamente: la rete delle statali misura 20 mila chilometri e quella autostradale solo 479, ma l’Anas fa gli straordinari e in quindici anni porterà le prime a quasi 30 mila chilometri e le seconde a oltre mille.

Ma i primi risultati si vedono subito. Nel 1946 (le statistiche tra il 1943 e il 1945 non ci sono) le autovetture sono già il doppio di quelle che circolavano nel 1942: 149.649 contro 73.790, così come i camion che arrivano a 137.260 contro 72.671. Ma tra il 1946 e il 1947 arriva il sorpasso. Non che l’auto privata non aumentasse i suoi numeri: 35 mila in più, un dato che segnava la prima ripresa della ricchezza individuale dopo i cali del circolante del periodo bellico. Ma lo scatto in avanti dei camion – quasi 60 mila veicoli in più rispetto all’anno precedente – determinò il sorpasso.
Cos’era accaduto? In qualche modo, quell’anno e quel sorpasso sono gli indicatori dell’inizio della Ricostruzione. Che comincia dall’edilizia, dalle case e dagli edifici da tirare su dalle macerie (“Dove vedevamo una gru”, ricorda Mario Artusi, storico contitolare (con Massimo e Roberto Campilli) della concessionaria di veicoli commerciali Romana Diesel, “sapevamo che lì c’era lavoro, sviluppo, ricchezza”), per proseguire con il ripristino degli scambi commerciali tra i prodotti agricoli del Sud e quelli industriali del Nord, in un processo che culminerà a metà degli anni Sessanta, quando, completata l’Autostrada del Sole, i due pezzi d’Italia si avvicineranno.

Ma in quel 1947, la Ricostruzione comincia come può, mettendo insieme uomini con la voglia di lavorare per uscire dalla guerra e dalle sue miserie e residuati bellici – malridotti, avariati, riparati alla bell’e meglio – abbandonati dal nemico nella fretta della fuga o dall’alleato ansioso di tornare a casa. Si possono trovare a pochi soldi nei campi ARAR, acronimo di Azienda rilievo alienazione residuati. È l’ente che deve vendere (spesso liberarsi) del materiale bellico: sono migliaia i camion militari che si possono riconvertire all’uso civile e – soprattutto quelli americani – non sempre sono nelle peggiori condizioni.
La rivista dell’Automobile Club d’Italia, L’Automobile, nel suo primo numero settimanale, il 22 ottobre del 1945, dà notizia della prima cessione all’Italia da parte delle forze armate statunitensi di residuati per il valore di 2 milioni e mezzo di dollari e, contemporaneamente, dell’assegnazione di 1.814 autocarri fino a 5 tonnellate di portata ai trasportatori concessionari del ministero e a quelli – privati – del Sud. C’è anche – sulla stessa rivista – una rubrica che elenca una serie di veicoli di proprietà incerta, per invitare i lettori a contribuire a rimettere in ordine il Pubblico registro automobilistico: anche in queste liste il numero degli autocarri è preponderante rispetto ad auto e moto.

Perché la domanda di trasporto in quell’Italia che doveva essere ricostruita si misurava con le rovine degli edifici, ma anche con le macerie dell’amministrazione: la normativa prebellica era inadeguata, quella degli alleati era transitoria. Di fatto era il Far West: chi aveva un camion sotto mai (suo o altrui) viaggiava, anche senza autorizzazione. Magari ricorrendo a qualche astuto stratagemma, come quel trasportatore romano che avendo tre camion ma nessun permesso, aveva creato una società dal nome inglese, l’American company: e, nella confusione di quei giorni, circolava come se fosse un’azienda alleata, senza bisogno di documenti.
È in questo mare di lamiere e di disordine che i giovani più svegli vanno a “fare la spesa” nei campi ARAR. A chi capisce già qualcosa di motori brillano gli occhi: GMC, Dodge, Chevrolet, Diamond, Mack, White, Federal, Scammel, AEC. Così – stando ai dati Istat di quegli anni – gli autocarri in circolazione, che nel 1946 erano 137.260, in pochi anni raddoppiano: nel 1952 sono già 257.923 e costituiscono un terzo del parco circolante, perché le automobili all’inizio crescono più lentamente. E quei 184.060 autocarri del 1947 sono tutti (o quasi) lavoratori che fuggono dalla fame e colgono la prima occasione che passa loro davanti. E che alle volte è preferibile al lavoro che hanno.
“In Ciociaria”, racconta ancora Artusi, “ricordo tanti contadini che anziché continuare a spaccarsi la schiena nei campi, hanno venduto la terra, si sono comprati il camion e si sono messi a fare i trasportatori”. È il certificato di nascita dei padroncini, ma anche di tante imprese che oggi sono diventate multinazionali della logistica.