L’odore, la morbidezza, la sensualità di una selleria Connolly dentro un’automobile sono una verità per pochissimi. Se l’Io è soprattutto un’entità corporea, come diceva Freud, quest’Io ha nella pelle il suo organo più grande. Con questo comunica con il mondo, attraverso il tatto e l’olfatto e la visione. Lo ricorda Vittorio Lingiardi, nel suo ultimo libro Corpo, umano, (Einaudi, 2024) citando i versi di Paul Valéry “Ciò che vi è di più profondo nell’uomo è la pelle, per quanto scaviamo siamo sempre ectoderma”.

Probabilmente la stessa sensazione di starsene seduti su un divano Chesterfield a bersi l’ultimo goccio di grappa prima di andarsene a letto. I Chester, se uno vuole proprio togliersi lo sfizio, più o meno rigenerati, si trovano sulla rete come ultimi esemplari dei manufatti del tempo che fu.

Però, sulle poltrone e i divani, con la loro pelle screpolata fino a sembrare una piaga da decubito, ci siamo solo noi, in pantofole e solitari, mentre un’auto il suo destino lo realizza nello spazio, tra gli asfalti e i luoghi del mondo. Conciare, finire e rifinire la pelle è un’arte, ne sapeva qualcosa lo Svedese, il protagonista di Pastorale americana, il romanzo capolavoro di Philip Roth.

Come i guantai di Newark, dall’eccelso mestiere plastico di cucire pelle sulla pelle delle mani, allo stesso modo i Connolly, sellai di Ashford nel Kent, una località nota per la produzione di bestiame e per la conciatura della pelle, divennero gold standard per i rivestimenti delle auto più prestigiose. Selle, finimenti per le cavalcature, specialmente imperiali, perché guidare un’Aston Martin o una Bentley o una Ferrari non è molto diverso dal montare un purosangue. Cavalli sotto la sella e cavalli dentro il cofano sono la stessa metafora del ‘go’, dell’andare.


Certo, puoi andare pure se la selleria è in Alcantara, una pregiata fibra sintetica, e puoi comunque farti avanti anche con un rivestimento in vil pelle, in questo caso già basta la parola. Il mantra del vorrei ma non posso è veramente sterminato e non ci impedirà di amare tutto ciò che porta avanti la baracca, compresa quella con quattro ruote. Ne sanno qualcosa i meccanici e i carrozzieri più ingegnosi del mondo, i cubani.
Ricordo un tassista del Quadraro, un glorioso quartiere di Roma Est, che aveva sostituito il sedile in vil pelle della Fiat Ritmo con lo scheletro di un sedile ricoperto come la sedia sdraio a strisce del terrazzino di casa. Oggi i tassisti non sono più quelli del tempo in cui indossavano uno spolverino color tabacco, come in certe pellicole da film dei telefoni bianchi.
Ma non solo, anche nel Dopoguerra quando era importante conservare visibilmente uno status e possedere una memoria della toponomastica urbana ed extraurbana al netto di ogni navigatore. Fatte salve certe lunghe peregrinazioni da A a B, dove in mezzo c’erano tutte le altre lettere dell’alfabeto, per la promozione della grande bellezza di Roma.