Se c’è una cosa che ho sempre detestato da piccolo – oltre all’infernale ganascino che i grandi credevano fosse un modo simpatico di mostrare affetto strizzandoti la guancia ed era invece solo sadismo mascherato – era l’untuoso interrogatorio: “preferisci il papà o la mamma, tuo fratello Franco o tua sorella Claudia, il panettone o la colomba, il risotto o il pasticcio di maccheroni” e altre amenità che forse intendevano istruirti sul fatto che la vita sarebbe stata una successione di scelte dolorose, eliminazioni, condanne o assoluzioni senza senso.
Io da piccolo volevo tutto, il papà e la mamma, i fratelli, il risotto, la colomba, i maccheroni, la bicicletta e il triciclo, tutto quello che la vita poteva offrire, immenso territorio di conquista anziché sgomento di privazioni oltretutto sanzionate da me stesso! Altra cosa insopportabile: cosa portare sull’isola deserta, quale libro, quale film, quale ricordo… che gioco infinitamente stupido! Io ho sempre voluto tenermi stretto ogni ricordo della mia vita, senza gerarchie, senza ordine d’arrivo, senza gradi e senza uniformi.
Perciò se devo scegliere quali sono le 10 auto mie preferite già mi viene voglia di scappare. Sarebbe più facile dirne una, perché dieci sono soltanto un plotone di esecuzione e quelle che rimangono fuori sarebbero invece altrettanto amate e desiderate di quelle incluse. Ma un gioco è un gioco, anzi un giuoco, come nell’italiano elegante dei primi del Novecento, ma bando alle ciance e stiliamo dunque la classifica.

Comincio con la 600, quella che aveva la mia mamma, una delle primissime a uscire dal Lingotto. L’aveva vinta a una lotteria indetta proprio dalla Fiat per lanciare l’utilitaria che doveva motorizzare l’Italia (riuscendoci in pieno). Aveva un delizioso colorino verde/azzurro, i vetri scorrevoli, una specie di tascone in plastica dove riporre borse, borsette, documenti e giocattolini vari. In più, obbligato a stare sempre dietro, avevo scoperto che c’era una lunga striscia di stucco sotto la stoffa che ricopriva la cappelliera e che potevo staccarne piccoli pezzi da utilizzare come palline di pongo. Ricordo perfino l’odore di nuovo di quella macchina, quello che purtroppo svanisce in fretta (forse anche tremendamente tossico!). Naturalmente preferivo viaggiare con mio padre che guidava molto più sportivamente (“pilotando la sua Alfa Romeo come in un film di Godard” avrebbe detto Pasolini) e ogni tanto mi prendeva in braccio e mi lasciava fingere di guidare. Ma la verdazzurra 600 materna, casomai mi capitasse di trovarne una, quasi quasi la ricomprerei.

È più famosa la successiva DB5 per l’endorsement di James Bond in tutte le sue reincarnazioni, da Sean Connery a Daniel Craig, sempre mantenendo la stessa sensazionale e armatissima Aston Martin preparata da M (l’indimenticabile attore Desmond Llewelyn), ma secondo me la DB4 è una delle più belle realizzazioni della casa inglese. La carrozzeria è opera della milanese Touring e verrà costruita su licenza dalla Tickford. Esiste anche una mirabolante versione carrozzata da Zagato, di bellezza tale da venir replicata negli anni Novanta dalla casa madre in 4 esemplari “postumi” dal costo proibitivo. Altre repliche non autorizzate furono realizzate in proprio e, per quanto apocrife, hanno sempre mantenuto un alto valore.

Capolavoro di ingegneria, all’avanguardia per i tempi e costruita con precisione da orologiai, la Lancia Aprilia nella sua prima versione si distingueva dalle successive per l’assenza dei caratteristici predellini, cosa che conferiva alla sua linea ovoidale un’efficienza aerodinamica senza uguali in una vettura di serie. La prima serie aveva un motore 4 cilindri a V stretto di 1.352cc e quattro sospensioni indipendenti che assicuravano una notevole tenuta di strada (per l’epoca) salvo cappottarsi nelle curve strette prese troppo allegramente. In seguito furono aggiunti i caratteristici predellini e la cilindrata fu aumentata a 1.486cc. Vincenzo Lancia, durante i collaudi, trovò eccessiva la velocità di 135 Kmh e la fece abbassare a 125.

Luxe, Calme, Volupté secondo General Motors, al cui gruppo appartiene la factory che così declina a suo modo i versi di Baudelaire nel suo Invitation au voyage. E infatti niente di più piacevole sarebbe viaggiare in questo transatlantico pieno di pinne e cromature, stoffe preziose e pelli, moquette dove nulla deve cascare perché si perderebbe e non si troverebbe più. Opulenza al grado massimo che, come tutte le macchine ultra lussuose, si trasformerà nel giro di pochi anni, grazie al continuo annuale rinnovarsi di modelli, nel sogno finalmente realizzato dei sottoproletari criminaloidi dei quartieri ghetto. Sono talmente tanti i film si cui è protagonista che l’elenco sarebbe sterminato. Per tutti valga The Deer Hunter (Il Cacciatore, 1978), capolavoro di Michael Cimino, dove la versione coupé porta in montagna l’allegra brigata prima che il Vietnam ne separi i destini.

La sigla corretta sarebbe Mercedes-Benz W198 300 SL ma tutti la conoscono col soprannome di Gullwing (ali di gabbiano) per via degli sportelli che si aprivano verso l’alto rendendo l’accesso più adatto ai contorsionisti che all’utente normale. Direttamente derivata dalle corse è un’auto dalle prestazioni eccezionali, assicurate da un 6 cilindri in linea di 3 litri a iniezione Bosch, il primo montato su un’auto di serie, che sviluppava 215 Cv di potenza massima. Ne ricordo una parcheggiata vicino casa di mia nonna in via Vivaio a Milano, nera come il peccato, possente, terrorizzante. Da bambino potevo passare le ore ad ammirarla.

La XK120 fu lanciata in versione roadster come veicolo dimostrativo al Salone dell’automobile di Londra nel 1948, giusto per verificare l’appetibilità del nuovo motore XK6. Il successo fu tale da convincere sir William Lyons, il patron della Jaguar, a produrla in serie. È noto che la sigla 120 si riferiva alla velocità in miglia che poteva raggiungere questa elegantissima vettura, epitome della scuola inglese, risultando così la vettura di serie più veloce sul mercato mondiale.

Si tratta di un veicolo militare che utilizzava il telaio accorciato della Land Rover 109 passo lungo e il motore di 2.286cc a benzina della serie IIa. Nel maggio del 1967 fu montato anche l’unità diesel e successivamente anche il 6 cilindri 2.600cc a benzina, disponibile però solo per l’esportazione. Il vano motore fu predisposto per poter montare anche il V8 di 3.500cc a benzina che equipaggiava le Range Rover. Era il sogno nel cassetto di tutti i possessori delle Land Rover “normali”, dunque anche il mio, malgrado fossi felicemente innamorato della mia 88 militare serie IIA.

A fine anni Sessanta la RAI commissionò alla Fiat e alla carrozzeria torinese Savio una serie di autovetture chiuse sul telaio della Campagnola AR59 (autoveicolo da ricognizione) da utilizzare in prevalenza per seguire le gare ciclistiche. Qualcuna aveva infatti anche il boccaporto per le riprese dall’alto dell’operatore. La Campagnola era nata nel 1951 per scopi militari e agricoli e, dopo aver sbaragliato la concorrenza della complicata Alfa Romeo Matta, aveva assicurato al nostro esercito un mezzo che le successive serie degli anni Settanta avrebbero fatto rimpiangere. Questa autovettura, ormai piuttosto rara, è stata restaurata da cima a fondo dallo specialista Enzo Buoni ed è in condizioni perfette, meglio ancora di come uscì dalla fabbrica.

C’è poco da dire: si tratta di una delle più belle automobili mai disegnate (il nostro Flaminio Bertoni!) la cui voluttuosa modernità stupisce ancora oggi, senza contare le innovazioni meccaniche di cui era dotata al punto da proiettarla nel futuro con un tale stacco sulla concorrenza da rendere obsoleto tutto il parco macchine che nel 1955 si vide surclassare senza poter opporre nulla di simile. Si tratta di un’auto inimitabile, rivoluzionaria e borghese al tempo stesso, berlina da famiglia e da parata, specie se declinata nell’impeccabile livrea nera.
Nel tempo (fu prodotta dal 1955 al 1975, mai veramente rimpiazzata nel cuore dei Francesi e di chiunque) ebbe continue migliorie e serie che vennero a capo di tutti i difetti (gli innamorati diranno che non ne aveva) e confermò la smisurata capacità tecnologica dei nostri cugini d’Oltralpe. Le versioni scoperte realizzate da Chapron (come quella che ospita le grazie di Jane Birkin in una celebre fotografia) furono ugualmente eleganti e ambite e possiamo tranquillamente desiderarla ancora oggi dato che il suo comportamento su strada è sicuro e maneggevole (elettronica e gadgettistica a parte) malgrado i settanta e più anni quanto quello di un’auto moderna. Francis Ford Coppola ne possedeva una dotata di radiotelefono (a fine anni Settanta era una rarità) e il cinema le ha reso omaggio in centinaia di rischiosi inseguimenti. Di tutti questi film voglio ricordare almeno La Dea del ’67 della giovane regista Clara Law. È noto che l’eccellenza della sua tenuta di strada (e la fortuna!) salvò la vita al Presidente de Gaulle, come ci ha ricordato Piero Trellini su queste pagine.

Ed eccoci alla decima auto del cuore, ma quante ne ho lasciate fuori però! Si tratta di un’auto “sportiva” per come l’intendevano gli americani prima della compatta Ford Thunderbird e della muscolare Chevrolet Corvette. Una coupé due porte lussuosissima prodotto dalla marca del gruppo Ford incaricata di contrastare le rivali Cadillac del gruppo General Motors e Imperial del gruppo Chrysler, senza altre rivali che nelle superlative europee come Bentley, Rolls Royce, Alvis, Mercedes-Benz, Facel Vega (Ferrari o Maserati erano riservate alla nicchia dei super sportivi o degli attori hollywoodiani). Una sobrietà sconosciuta alle rivali americane ne faceva un’ideale alternativa alle blasonate supercar che venivano dalla vecchia Europa, carrozzate da Maestri cui avrebbe presto dovuto ricorrere anche l’industria americana, come Pinin Farina (che si scriveva ancora staccato) per le Nash-Healey o Ghia e Vignale per il gruppo Chrysler. Il motore di questo cetaceo era un V8 di 6 litri con una potenza che poteva andare dai 285 ai 300 CV, il cambio era un Lincoln/Borg-Warner Tubo Drive automatico a tre rapporti.
Abbiamo così raggiunto quota 10. Ma non sono affatto contento: le escluse incalzano piene di rimproveri, non si rassegnano, vogliono entrare nell’elenco anche loro. Inutile dire che questa non che una selezione senza graduatoria, la prima che mi è venuta in mente, nessuna predilezione a discapito di altre. Facciamo così: alla prima occasione ne aggiungo altre dieci e altre dieci ancora se ce ne sarà bisogno perché le macchine che mi hanno fatto sognare sono state tante. Nel frattempo aggiungo a questo elenco una undicesima (Alfa Romeo Giulietta sprint veloce Zagato) che, sebbene non prevista, è forse quella che mi piace più di tutte e sulla quale sarebbe stupendo mettere le mani. Mi piace così tanto che di foto ne metto due e la prossima volta vi racconto la sua storia

